giovedì 17 gennaio 2013

Boavista, 05 dicembre 2012. Osare l’impossibile.


(Racconto scritto da Tullio Frau, atleta totalmente cieco e presente nel blog Correre con Antonello Vargiu dell'atleta e amico Antonello Vargiu).

L’aereo si posa dolce sulla pista dell’aeroporto di Boavista, un clima soleggiato tiepido e leggermente ventilato ci accoglie con piacere. Gli occhi dei podisti sono tutti luccicanti per il desiderio di incominciare la sfida, 150 km in un paradiso che ancora resiste agli attacchi del progresso.
“Ciao Pier! Che bello rivederti, eccoci qui!”. Lui con un sorriso pulito e sincero ci accoglie e ci accompagna nel nostro alloggio. L’isola di Boavista, collocata nel fianco occidentale dell’Africa,  fa parte dell’arcipelago di Capoverde sull'oceano atlantico. Il clima è meraviglioso, tutto profuma di semplicità e tranquillità. I pochi abitanti ormai sono abituati a vedere in questo periodo i podisti, anzi i pochi ultramaratoneti arditi che osano cimentarsi in una gara come questa, una trail tra le più  dure al mondo che però vale la pena affrontare.
8 dicembre, sono le 7 del mattino, sulla linea di partenza siamo tutti pronti al via. Io sono lì con tutti gli altri, uno dei pochi fortunati a poter affrontare un’impresa simile, in 41 solamente abbiamo avuto il coraggio di accettare questa sfida.


 L’emozione è altissima, il cuore è a mille, a stento trattengo una lacrima che mi bagna il viso,, nessuno se ne accorge. Tutto è pronto.  marco finalmente pronuncia la fatidica parola: via! Si parte, in pochi istanti il piccolo gruppo di atleti si sgrana, dopo un km di asfalto le prime dune inghiottono gli atleti, le prime difficoltà incominciano. Avevo affrontato  altre volte imprese difficili, ma questa volta mi rendo conto immediatamente di aver a che fare con un percorso assai diverso e e con difficoltà al quanto superiori a ogni mia aspettativa. Anche se avessi voluto prepararmi al meglio, credo che avrei fatto fatica a trovare terreni adatti alla simulazione di un percorso simile. Ma non c’era più tempo di pensare al passato, bisognava solo alzare le gambe e andare avanti. “Bevi, bevi”! Certo, con questo venticello e questo sole è facile disidratarsi, la temperatura incomincia a salire, le dune un po morbide e un po dure si susseguono ininterrottamente, canyon con concrezioni calcaree, piccoli crepacci e ogni altro tipo di insidie segnano il percorso. “Dài, dài, stiamo andando benone, siamo sulla tabella di marcia, coraggio, bevi, non ti distrarre, alza i piedi e avanti”!

L’oceano lo avevo a sinistra, la sua voce incantevole mi accompagnava, a destra  arbusti rinsecchiti che al vento emettevano suoni dolci, in lontananza il primo c. p, una scoscesa ripida discesa irta di massi, concrezioni e spaccature ci porta direttamente al primo stop. Facciamo il pieno d’acqua, l’incitazione calorosa degli addetti e via, si riparte! Le difficoltà continuano, l’emozione è ancora incontenibile, spesso una lacrima sfugge al controllo. Mi chiedo se è stata sana la decisione di partecipare ad una gara simile, mai un cieco ha osato cimentarsi in un’impresa del genere, ma ormai ero lì e lì dovevo restare, andare avanti e ad ogni costo portarla a termine in qualsiasi condizione. Siamo al relitto, una nave carica di non si sa bene che mercanzie: negli anni 70 si incagliò in prossimità della costa fornendo alla popolazione locale cibo e altri generi per qualche tempo, ora è lì a segnare una tappa di un percorso dai connotati ben definiti, una trail con difficoltà elevate.
 Il primo c. p. è andato, ora si viaggia verso il secondo. Sassi, sabbia, arbusti, dune morbide, canyon, strane concrezioni spuntano dalla sabbia. “Attento a dove metti i piedi”! Ma il mio cordino mi trasmette una sensibilità eccezionale, ormai so dove alzare i piedi, dove saltare o dove correre, i miei compagni di avventura sempre al mio fianco a guidarmi con maestria e attenzione. “Dài, Tullio, dài che vai bene”! Incitamenti che talvolta non sentivo tanta era la mia concentrazione nel muovere i passi. Uno dopo l’altro i metri, i chilometri si susseguivano costantemente, sembrava di andare veloce, invece la sabbia rallentava i nostri passi, ma la nostra andatura era costante. Ormai il secondo c. p. di Espinguera era alla portata. Avevo finito l’acqua, ma i rifornimenti erano lì. “Dài, ragazzi, ci siamo, dài ragazzi, bravi, ora arriva il bello”!
Abbandonato il secondo c. p, questo posto di rifornimento è situato in un villaggio di pescatori, Espinguera. Ci imbattiamo subito  in una pista sassosa,, che dico, massi taglienti, terreno scosceso, solo le capre possono vivere qui mi vien da dire! Oltretutto il percorso è in salita, e comunque che importa? Ora bisognava andare avanti, sulle spalle uno zaino pesante, circa 6 kg. Dentro tutto l’occorrente per affrontare una gara che come tempo massimo aveva un cancello di 40 ore, sotto un sole caldo circa 38 gradi, con un bel venticello che ci rendeva meno faticoso il cammino. “Avanti, dài, tra un po’ si arriva ai sampietrini, il terreno del Magraib a confronto è di velluto”! E giù una risata. Ma non c’è tempo per divagare, avanti che il tempo passa. Intanto la mia caviglia destra si fa sentire, una storta nel terreno precedente mi ha tradito, ma non importa, ormai i doloretti erano diffusi e eravamo solo agli inizi.
Attraversiamo un piccolo villaggio, qua e la il belare di caprette, il ragliare di un asinello, le galline in mezzo alla pista e poche persone e bambini festosi ci vengono incontro, che meraviglia! Un altro mondo, l’emozione mi soffoca le parole in gola, d’improvviso scompaiono tutti i mali e la fatica. Queste persone hanno difficoltà a procurarsi il cibo quotidiano, noi abbiamo pagato per venire qui a fare fatica, di che mi devo lamentare? Avanti e zitto!
Ora il percorso diventa sabbioso, il mare ormai è lontano, ci siamo introdotti nell’interno dell’isola, la temperatura si fa più soffocante, il vento cala e la fatica si fa sentire maggiormente, non ci sono dune ma sabbia dura con gradoni da scavalcare, arbusti pungenti da  evitare. “Avanti, mangia qualcosa, bevi, non aspettare di aver né fame né sete, devi  prevenire”! Ed eccoci su un canale dove raramente scorre acqua, un letto di un fiume inesistente, alla fine il deserto  bianco. La sabbia finissima del terreno ci accoglie con le sue dune morbide, su e giù. “Avanti! Se corriamo più verso sinistra la sabbia è più dura, forse la allunghiamo, ma è più agevole. Dài, tra poco siamo al terzo c. p. Avanti, ecco le due palme, ci siamo, dài”! Mi siedo esausto su un sasso, sfilo lo zaino per il rifornimento di acqua, mangio qualcosa. “Tutto bene?” mi chiedono. “Sì, sì””. Ora incomincia a far caldo. “Devi continuamente bere, mi raccomando! Dài che stiamo andando  bene, un po’ lenti ma benone”!
Rimesso lo zaino in spalla si riprende la strada, sembra facile, ma un segnale poco visibile ci fa per un momento perdere l’orientamento: un groviglio di rovi, arbusti e altro tipo di vegetazione rinsecchita ci impedisce la strada, dune alte e ripide si interpongono sul nostro cammino lento, radici come trappole che spesso mi fanno inciampare talvolta cadere, ma poi la pista si allarga e via, si va a passo più spedito. Lo sguardo si perde nell’orizzonte infinito, il silenzio ci avvolge, solo le nostre parole, le nostre poche risate per sdrammatizzare la fatica e il caldo, il fruscio del vento che accarezza le imperfezioni del terreno, un vero paradiso. Ci imbattiamo in un terreno ricoperto da concrezioni particolari, sembra che la natura si sia divertita a giocare con la creta. Migliaia di riccioli cosparsi sul terreno sembrano fatti con il compasso tanto sono perfetti, invece il gioco del vento sulla creta bagnata ha lasciato sul terreno dei disegni incredibili. Non c’è tempo per divagare, il sole è alto e bisogna andare, via, via che si va! Pista sabbiosa, dura, irta di gradoni, spaccature, sassi. Attraversiamo un villaggio, una strada asfaltata, poi ci immergiamo in un piccolo bosco. Improvvisamente la fisionomia dell’ambiente cambia, erba alta,  alberi e in lontananza un gallo che canta e il ragliare di un somarello. Dura poco la frescura, si torna immediatamente sotto il sole, dopo un breve tratto di strada si svolta a destra, indicazioni verso la ciminiera, il quarto c. p. Intanto la mia caviglia grida vendetta, dentro di me si fa strada l’ipotesi del ritiro, questo pensiero mi demoralizza, mi toglie anche le poche forze rimastemi. “Maledetto, mi dico, potevi prepararti meglio, avresti dovuto immaginarlo che non era una passeggiata”! Sì, è vero, avrei proprio potuto lavorare molto meglio, allenarmi con più assiduità, ma ormai era inutile piangere sul latte versato, ero lì  e lì dovevo restare, andare avanti, stringere i denti e non lamentarmi.
Usciamo dalla strada asfaltata e giriamo verso destra, navigazione libera verso la ciminiera di Chaves,  il quarto c. p. Dopo aver superato una piccola altura ecco in lontananza il fuoristrada con i rifornimenti idrici. “Bravi, ragazzi”! Marco ci accoglie con l’acqua, sfinito mi lascio andare sul pianale del mezzo, mi sfilo lo zaino, mi gira la testa, mi sta venendo male, sto per svenire, con un ultimo sforzo mi arrampico sul pianale del pick up. Marco mi versa un po di acqua fresca sul viso e sulle mani. “Come va?”, mi chiede. Non rispondo, non ho la forza, mi fa male la caviglia, ormai sono ritirato, ma non dico nulla, ormai credo di aver finito qui la mia avventura a boavista.
Dopo qualche minuto di rilassamento ho qualche accenno di ripresa. Mi dico: “Cretino, che hai fatto 6 ore di volo per ritirarti, tornare a casa senza medaglia? Non se ne parla nemmeno! Via, alzati e parti”! Infatti, il sardo che è dentro di me si è risvegliato e mi ha intimato di alzarmi e ripartire, via, via che si va! Ora eravamo rimasti in due, il terzo che ci affiancava e ripartito da solo cercando di recuperare terreno nei confronti degli altri. Ormai il percorso diventava facile da individuare e quindi potevamo arrangiarci, sicuramente il suo contributo è stato indispensabile. Grazie, caro amico, vai pure, tu sei veloce, noi ora cercheremo di fare del nostro meglio.
Scendo dall’auto,  mi reggo in piedi precariamente, mi infilo lo zaino e via. Dopo poco siamo sulla spiaggia di S. Monica, a destra l’oceano atlantico con tutta la sua maestà e la sua vivacità, a sinistra il nulla, deserto, terreno arido e solo silenzio, solo il fragore delle onde del mare ci fa da colonna sonora, una musica celestiale, sabbia, solo sabbia morbida che ci ruba energia in grande quantità. Avanti, sempre avanti, il vento ci rinfresca il viso, il sole ci scalda, ma senza esagerare. “Bevi, questo clima è pericoloso, sembra di no, ma si suda moltissimo e quindi l’idratazione è indispensabile”. Ci incamminiamo verso punta varadinha, il quinto c.p. marco ci aspetterà lì, ma tra noi chilometri di sabbia, mare e sabbia, le onde maestose dell’oceano. Era un ristoro per me, una musica incredibile, uno spartito divino che solo Dio avrebbe potuto scrivere. Il leggero venticello ci rinfrescava il viso, in  lontananza il rumore di un quad. “Tutto bene”? “Ma dov’è questa punta Paradinha? Non arriva mai!” “Vedi? Là infondo? Ecco, finita la spiaggia, troverete Marco ad aspettarvi”. Intanto la  spiaggia continua incessantemente, passo dopo passo, via sempre avanti, finché ecco, in lontananza, Marco che ci aspetta. “Dài che ci siete, avanti! Come va la tua caviglia?” “Fammi un’altra domanda”! gli rispondo. “Dài, coraggio, ce la farai”. Un po’ di acqua, riempita la sacca e via, verso il sesto c. p.
Riprendiamo il cammino, sempre e solo spiaggia e oceano, silenzio, solo onde, un incantesimo che non avrei mai voluto rompere. La fatica ormai non la sentivo più, solo il dolore della caviglia mi rendeva nervoso. Maledizione, avrei potuto vivere questa esperienza soffrendo meno, ma non importa, ero lì, dove pochi al mondo possono vantarsi di essere, una gara incredibile, con difficoltà di alto livello per un vedente, immaginiamoci per un cieco. Ma non c’è tempo per divagare, concentrazione. “Attento a come metti i piedi e avanti!” Ormai è il tramonto, il sole ha perso la sua intensità, nuvole di insetti fastidiosissimi ci assalgono, in lontananza il faro del fuoristrada di marco che ci attende, sembra lì, ma invece, per un gioco di prospettive, sembra che mantenga sempre la stessa distanza.
Finalmente eccoci alle case abbandonate di S. Monica, ormai è buio. Un minuto di rilassamento, Marco mi offre una coca cola  miracolosa, riempiamo lo zaino di acqua. “Via, dài ragazzi, ora qualche km di pista sassosa e credo che tra qualche ora ci siate, via via, avanti”! Lasciamo i sesto c.p. e ci addentriamo nella terra ferma, una pista sassosa, che dico, rocciosa! Massi appuntiti e taglienti. “Attento, alza i piedi, maledizione!”
Questi sassi non finiscono mai, ma si va avanti ugualmente, la luce delle nostre torce illumina il percorso, è ben segnato, bravi! La notte è priva di luna, ma un manto di stelle ci copre, sono miliardi, non serve vederci per capire quanto è grande l’universo, noi piccoli esseri umani siamo lì in una piccola isola e stiamo affrontando un percorso durissimo, per dimostrare solo a noi stessi che siamo capaci di portare a termine un’impresa incredibile. Sì, il percorso oltre che al buio diventa sempre più impervio, salita, sassi e solo sassi, ma poi la pista diventa un po più agevole, in lontananza una luce. “Dài, ci siamo”! La voce di Pier e Marco ci aspetta al c. p. “Un muretto da scavalcare e poi dovete proseguire di là,  dài che ci siete, bravi ragazzi!” Ormai è fatta.
 Credo che con una fasciatura adeguata avrei potuto proseguire verso il traguardo dei 150 km, non mi sentivo troppo stanco, con dei tempi diversi avrei potuto rilassarmi almeno un’oretta e poi proseguire per il traguardo finale, invece ormai i tempi non lo avrebbero permesso. Via, via, non potevo distrarmi con queste torture mentali. Prima avrei raggiunto il settimo c. p. e meglio sarebbe stato per tutti. Ancora pista sassosa, il ronzio di un generatore elettrico di un villaggio mi riporta sulla terra. Per distrarmi e non sentire il dolore scrutavo con la mente il paradiso che mi circondava, un ambiente incontaminato, un silenzio ricco di fascino e musica divina, un vero paradiso. Finalmente ecco il lampeggiante della macchina di Marco. Siamo alla spiaggia di Cural Velho, il settimo c. p., il traguardo intermedio, 71 km percorsi in 17 ore e 24 minuti. Sembra un’eternità. Un mese prima avevo percorso 70 km tutti di sterrato in 8 ore e 30, ma solo chi conosce il percorso di Boavista può capire che valore possa avere una prestazione come la mia. Certo non cerco scusanti, né attenuanti, ma se permettete io per primo mi sono detto bravo. Ora la coca cola di Marco e il suo panino al formaggio erano un dono del celo. “Bravo, Tullio, hai dimostrato carattere, io non so veramente come hai fatto, complimenti”! “Grazie, grazie davvero, grazie infinite, tu e Pier mi avete dato la  possibilità di poter toccare il cielo con le dita, di poter attraversare un paradiso che altrimenti mai avrei potuto vivere”! L’emozione” mi soffocava le parole in gola, la solita lacrima che sfugge furtiva. E’ notte fonda e nessuno si accorge del mio pianto di gioia incontenibile per aver raggiunto, se pur a metà, un traguardo incredibile. Il fuoristrada sobbalza sui sassi dove poco prima io camminavo, le ruote fanno fatica a superare gli ostacoli, è notte fonda. “Domani avrai la tua medaglia di finisher”, dice Marco, “te la sei proprio meritata”! “Sì, grazie, ne sono orgoglioso”! Finalmente in camera, dopo la doccia le lenzuola fresche mi accolgono dolcemente, non riesco a prendere sonno, ho ancora nelle orecchie il fragore delle onde dell’oceano, il profumo del mare, sento il vento che mi accarezza il volto. Dio, solo tu hai potuto creare meraviglie simili, grazie per avermi dato la possibilità di poterne godere con tale intensità………..

In questo mio racconto ho volutamente evitato di fare i nomi dei miei accompagnatori, credo che chi scelga di accompagnare un non vedente, o comunque una persona che altrimenti non possa in altro modo affrontare un’impresa simile, lo faccia con la consapevolezza di compiere un’azione meritoria. Grazie è solo una parola inventata da noi per dimostrare al prossimo tutta la nostra gratitudine.

Tullio Frau

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