La sera all’imbrunire passavo il
tempo a guardare fuori dalla finestra. Li, al settimo piano guardavo il
traffico bloccato. Tante macchine in coda. Clacson suonati con isteria da tante
persone che, rinchiuse nella loro scatola di latta, maledicevano chi aveva
deciso di realizzare quella assurda rotonda nella statale. Io li guardavo e
provavo invidia. Non pena o compassione, non fastidio ma vera e propria
invidia. Tanto arrabbiati per un ritardo ad un appuntamento con gli amici, per
paura di perdere la partita di calcetto, ritardo per la palestra o ritardo per
la recita dei loro figli. Maledetta rotonda perché non posso essere anch’io li
ad incazzarmi e suonare il clacson? No, non potevo. Arrabbiarmi potrebbe
essermi fatale. Non potevo perdere le staffe. In chirurgia generale non ci si
può incazzare. Quella poltiglia bianca da 2100 calorie bastava appena
per
farmi deambulare. L’unica certezza era che quella stupida “autoclave” inoculava
per via parenterale lo stretto necessario per sopravvivere. Si dice che la vita
è legata ad un filo. La mia era legata ad un sondino. Io che, appena saputo che
mi si era infiammata l’appendice, andai spavaldamente in ospedale. Con quel
piglio che ho sempre avuto e con il solito atteggiamento saccente e spocchioso
dissi “ma che sarà mai dottò. Se mi devi aprire fallo in fretta che ho da
fare”. Invece non andò come speravo, come sperava dottor C. . La fistola
enterica creatasi tra il cieco e la ferita chirurgica non si chiudeva. “Certo,
un giovane come te, 35 anni, un metro e settanta per 74 chili tutti fatti in
palestra può guarire tranquillamente con una semplice terapia conservativa.
Lasciamo che l’intestino riposi per 25 giorni e vedrai come te lo risolviamo il
problema Antonello”. Passai i 25 giorni più brutti della mia vita. In una
settimana scesi a 54 Kg, sembravo un malato terminale. La mattina cercavo di
lavarmi il viso senza guardarmi allo specchio. Preferivo pagare e farmi radere
il viso da barbiere in reparto piuttosto che vedermi allo specchio in quello
stato. Non potevo, per ovvie ragioni, ne mangiare ne bere. L’ora dei pasti la
passavo chiuso in bagno a piangere. Anche la caposala, col suo atteggiamento
acido da vecchia zitella, con quel “cinismo necessario” tipico di chi deve
convivere ogni giorno con la sofferenza e col dolore, spesso mi chiedeva di
scambiare due parole. Forse mossa da compassione, forse perché chirurgia
generale è il tipico “reparto mordi e fuggi” e io ero ormai il veterano, cosa
rara e quindi difficile da gestire. Era la sera prima del “grande giorno”.
Sapevo già che c’erano due opzioni: Emicolectomia oppure stomìa. Quando Dott.
C. mi spiegò cosa fosse la seconda opzione dissi: “se mi fai quella cosa lì
giuro che ti mollo un cartone in faccia appena mi sveglio!”.
E se non mi sveglio?
Pensai a questa opzione per
qualche giorno. Il giorno prima dell’intervento chiesi alla caposala, durante
l’ora delle visite, di restare chiuso in infermeria con mia moglie e mio
figlio. Non sapevo se gli avrei più rivisti. Passai mezz’ora a parlare con mia
moglie e giocare col marmocchietto di 3 anni appena. Lo presi a fatica in
braccio, lui giocava con l’asta della flebo. Ebbi la forza di trattenere le
lacrime. La prima volta in 25 giorni.
Quel giorno mi svegliai alle 5
del mattino ma di quella mattina ricordo solo poche cose. Il soffitto del
corridoio mi scorreva d’avanti agli occhi mentre mi portavano in sala
operatoria. Quelle lampade neon apparivano e scomparivano a cadenza regolare.
Regolare e cadenzato era anche il sobbalzare della lettiga nelle fughe tra una
mattonella e l’altra, spezzato solo dal varco all’ingresso dell’ascensore.
Ricordo il freddo in sala pre-operatoria. Poi la maschera.
Mi svegliai il primo pomeriggio.
Misi la mano sull’addome a cercare la sacca.
Evviva non c’era!
Mia moglie era scompisciata dalle
risate perché, in stato di semi incoscienza ripetevo “Rossella vai via, non
voglio che mi veda soffrire così!” Sapeva prima di me che il peggio era
passato. Che quello era la fine di un incubo, l’inizio di una nuova vita.
Arrivò Dott. C. e gli dissi a fatica: “vaffanculo Gaetano, ti sei scampato un
cartone in faccia!”. Sorrise lasciando trasparire un entusiasmo e un trasporto
emotivo che mi rassicurò ulteriormente.
L’autoclave con il sondino
parenterale era sparito. “cavolo voglio imbottigliarmi nel traffico della
statale” pensai. Poi chiesi se potevo bere un po’ d’acqua. Di li qualche ora
potevo pure mangiare un po’ di semolino. L’esperienza di mangiare, anche la
cosa più schifosa, fu un’esperienza bellissima.
Ero uscito da un incubo, salvo
per miracolo ma ne portavo evidenti i segni sul corpo. Mi avevano aperto come
una cozza. 50 punti in pancia, 52 Kg di peso e, di li a qualche mese, vista
l’impossibilità di poter fare attività fisica per evitare traumi all’addome, mi
ritrovai con una pancetta inguardabile. Non potevo fare addominali ma potevo
correre.
Camminare, corricchiare, correre.
Beh mica male! Anche se non sto inseguendo un pallone non è poi così male
correre.
Per una volta capì che correre
non era scappare dalla paura Stavo inseguendo un obiettivo. Prima far sparire
la pancetta. Ok sparita. Mi serviva un altro obiettivo da raggiungere, ma
sempre correndo. Allora era riuscire a correre ininterrottamente per 30 minuti,
poi correre la stessa distanza in meno tempo, poi? Poi stare appresso ad un
runner più forte per alcuni minuti. Era ormai una fissa. Tutto quello che si
può fare correndo lo dovevo fare.
Infine capì che correre era un
modo per dimostrare a me stesso che ero finalmente guarito. Guarire non era
sentire le parole del chirurgo che ti dice “Antonè vai a casa che sei ormai
guarito. Non voglio più vederti qui dentro a rompere le scatole”. Guarire
voleva dire riuscire a fare quelle cose che facevi prima. Anzi dovevo farne di
più e sempre meglio.
Ho appena terminato la mezza
maratona di Uta. Cavolo ho raggiunto un altro obiettivo!!
Non è il personal best. Non è
superare una crisi o tenere una buona media. Oggi mi sono raccontato una storia
che conoscevo ormai da tempo ma me la sono raccontata a voce alta e a muso duro
in faccia. Solo oggi mi sono reso conto che ho cominciato a correre ancor prima
della decisione di tirar giù la pancia. Cominciai a correre quando vidi, fuori
dalla finestra il traffico imbottigliato nella rotonda della statale. Correvo per
un obiettivo. Scappare da quel “destino beffardo” che voleva prendermi come già
fece con mio padre 15 anni prima.
Ancora oggi, come tutti i giorni
che mi restano da vivere, rinnovo la sfida allo stesso destino beffardo.
Vuoi prendermi? Ok inseguimi pure.
Sappi che per acciuffarmi dovrai
andare sotto i 4:30!
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